Il difficile governo delle acque del piacentino
Il problema di un razionale utilizzo delle acque nel nostro territorio nei tempi più antichi non nasce tanto dalle necessità dell’agricoltura, nei secoli passati rimasta a lungo di tipo estensivo e priva di colture bisognose di apporto idrico supplementare, quanto dalla nascita in età romana della città con le sue esigenze sanitarie, energetiche, di trasporto e di svago. Piacenza romana con le sue terme, acquedotti, fontane e canali aveva una grande necessità d’acque.
Anche se mancano testimonianze dirette, sappiamo che fin dal primo secolo a.C. Piacenza era rifornita da acquedotti che derivavano le acque dal fiume Trebbia e dal torrente Nure, acquedotti dei cui resti si fa riferimento nelle prime concessioni di acque da parte di imperatori carolingi del IX secolo a monasteri piacentini e specialmente a San Sisto. Sempre in età medievale molto materiale lapideo romano fu usato per l’irrigazione degli orti cittadini come i cosiddetti “buchi Madonna”. Furono ancora i Romani i primi a navigare sistematicamente il Po allacciando le città rivierasche all’asta del fiume con dei canali navigabili o navigli. Come attesta Tito Livio, già durante la seconda guerra punica, Piacenza era dotata di un porto e di un emporio collegati al Po da un naviglio che più tardi, in età imperiale, prese il nome di Fossa Augusta, nome corrottosi nel Medioevo in Foxusta, l’attuale Fodesta.
Nell’età barbarica le opere idrauliche di conduzione, di bonifica e di arginatura subirono un secolare abbandono andando quasi completamente distrutte. Le fondazioni religiose prima, i vescovi, i capitoli e i grandi monasteri, concessionari di privilegi sulle acque pubbliche da parte di imperatori e pontefici, furono i primi nel Medioevo a sfruttare la grande valenza economica delle acque. Porti, traghetti, mulini, flottiglie da trasporto e da pesca cominciarono a popolare i nostri corsi d’acqua. Ad esse nel governo delle acque subentrò fin dall’inizio del XII secolo il libero comune cittadino alla guida di una città in un forte sviluppo urbano demografico ed economico. All’età comunale si deve la costruzione del rivo Comune di destra del fiume Trebbia che con i suoi canali derivati il Parente, il Piccinno ed altri assicurò fino alla prima metà del secolo scorso il rifornimento idrico della città e l’irrigazione della fertilissima “campanea placentina”. All’interno della città una rete di canali in superficie assicurava la forza motrice ad una rete di opifici: mulini da grano e da olio, cartiere, gualchiere per la follatura dei tessuti, concerie, filatoi di cotone e più tardi di seta, mantici degli altiforni ecc.
Contemporaneamente riprendeva e si sviluppava la navigazione fluviale sul Po facente capo al porto del Fodesta dove sorgevano cantieri navali. L’intensa produzione manifatturiera delle città padane (tessuti, telerie, oggetti di pelle e di cuoio, ferramenti ecc.) alimentava un traffico che si avvaleva di accordi commerciali con esenzioni daziarie tra i comuni rivieraschi. Pavia, Cremona, Mantova e Ferrara. I professionisti della navigazione erano i Navaroli, la cosiddetta marinaresca del Po.
Finché il Comune cittadino rimase l’arbitro incontrastato della vita pubblica, i contrastanti interessi dei fruitori delle acque, agricoltori, molinari, artigiani, pescatori, navaroli, trovarono quasi sempre una vantaggiosa composizione. Durante il Trecento e successivamente la caduta di Piacenza nel dominio di potentati regionali, il ducato di Milano, lo stato pontificio poi e infine il ducato di Parma e Piacenza sotto i Farnese e i Borbone, determinò anche per il carattere spesso aleatorio di queste dominazioni, incertezze e abusi nell’uso delle acque col prevalere di interessi particolari. Nel Quattrocento il Comune urbano dovette lottare contro i potenti feudatari del contado, i Landi di Rivalta e gli Scotti di Gragnano, per assicurare gli indispensabili rifornimenti idrici alla città. Anche dopo la promulgazione, nel 1585, da parte del duca Ottavio Farnese, degli “Ordini per il reggimento delle acque del Trebbia” con la creazione di un alto commissario ducale sulla materia e una serie di disposizioni miranti a regolare l’uso delle acque tra i vari concessionari e a reprimerne gli abusi con un occhio di riguardo per la città, la situazione non migliorò stabilmente. Né valsero a sopperire al crescente aumento dei bisogni idrici per l’irrigazione, per la molitura e per le esigenze igieniche della città, l’apprestamento di notevoli opere come le prese sul Trebbia, quella di Ca’ Buschi sulla sponda destra e quella dei cinque rivi sulla sponda sinistra o la realizzazione di regolatori e partitori in grado di distribuire razionalmente i flussi del liquido, opere dovute anche alle migliorate conoscenze di tecnica e di scienza idraulica. Spesso le frequenti calamità naturali sotto forma di disastrose alluvioni o di perduranti periodi di siccità vanificavano gli sforzi di amministrazioni laboriose e imparziali.
La documentazione esposta testimonia largamente la costante pratica dei furti d’acqua e di altri illeciti ed abusi che una serie ininterrotta di grida manzoniane cerca inutilmente di reprimere con minacce di sanzioni spesso inapplicate. Così come, in assenza di una legislazione chiara e unificante tutta la materia del resto obbiettivamente complessa, si moltiplica il contenzioso amministrativo e giudiziario tra le parti in causa con pronunciamenti spesso contraddittori tra i vari livelli giurisdizionali. Neppure il breve governo napoleonico (1806-1814) che tenta di far piazza pulita di tutti gli antichi ed anacronistici privilegi, riconducendo i diritti di prelievo a regolari concessioni demaniali, è in grado di regolamentare in modo equo la materia. Sicché a metà dell’Ottocento i Piacentini ravvisano nel Trebbia uno dei maggiori grattacapi della città, assieme agli altri due malaugurati T: il Teatro divoratore di denaro e i Tedeschi insolenti occupanti.